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Il federalismo in Italia, fenomeno carsico o modello estraneo?

Dall’Unità alle Regioni

 

Di Giuseppe Daponte

 

In Italia l’unificazione nazionale è arrivata relativamente tardi, nel 1861; così anche in Germania, nel 1871, al termine della guerra franco-prussiana (all’ombra della quale si è completato anche il nostro processo di unificazione, con la “breccia di Porta Pia”). In Germania la presenza di consolidati Stati preunitari ha favorito la nascita di un ordinamento federale. In Italia, invece, si è imposto il modello centralizzato francese, nonostante la presenza di analoghe spinte e tradizioni autonomistiche e di un robusto filone di riflessione politica (da Carlo Cattaneo a Giuseppe Mazzini) di ispirazione federalista – ma anche europeista, a dispetto di recenti e capziose rivisitazioni politiche -. Eppure un’esperienza federale sul territorio italiano era già stata sperimentata, dal 1720 al 1847, nel Regno di Sardegna (per quanto i libri di storia, come ha sostenuto il costituzionalista Augusto Barbera, lo dimentichino facilmente). Ma quella parentesi si era chiusa con il Risorgimento: le guerre di indipendenza, a cominciare dalla spedizione dei Mille (notoriamente “agevolata” dalla flotta inglese), erano state condotte con il beneplacito delle dinastie europee, che non avrebbero accettato forme di Stato diverse da quella unitaria e monarchica. Solo così il Regno d’Italia avrebbe costituito una garanzia antirivoluzionaria nello scacchiere europeo. L’unità nazionale, pertanto, è stata raggiunta attraverso un processo di annessione e sottomissione dei preesistenti Stati preunitari, ossia di “piemontesizzazione” della Penisola.
Sulle ceneri dello Stato accentratore fascista, il costituente italiano, nel ’47, ha mostrato una particolare sensibilità al tema delle autonome locali. Si voleva realizzare un antidoto contro possibili nuove involuzioni autoritarie, dare una risposta alle tensioni autonomistiche (o separatistiche) in alcuni territori, soprattutto Sicilia, Trentino alto Adige e Val d’Aosta. Si intendeva valorizzare le differenze importanti insite nel territorio, di natura geografica, culturale e socio-economica. Si cercava di promuovere, tramite nuove entità infrastatuali, coscienza democratica e partecipazione politica, soprattutto sui temi più vicini agli interessi locali e del singolo cittadino. Si presumeva, in modo forse troppo ottimistico, che le autonomie locali potessero essere una sorta di panacea di alcuni mali italiani inveterati, quali la burocrazia, soprattutto quella ipertrofica dei ministeri romani. Si auspicava una riqualificazione della funzione legislativa del Parlamento nazionale, che liberato dal lavoro demandato agli Enti locali, avrebbe potuto dedicarsi al proprio ruolo fondamentale, la scelta della politica generale del Paese e il controllo dell’esecutivo.
Nel ‘48, le strade percorribili erano due, il federalismo o il regionalismo. Alla fine, i costituenti hanno optato per il secondo. La soluzione federale, infatti, pur essendo mutuata dal modello statunitense, che grande influenza ebbe sui lavori della Costituente, era stata accantonata perché ritenuta, in un contesto di pericolose spinte separatistiche, troppo rischiosa per l’unità nazionale, un bene, per i costituenti, da preservare ad ogni costo. Ci si è ispirati, invece, al modello “tripolare”, inventato dalla Costituzione spagnola del 1931 per rispondere alle esigenze autonomistiche di gruppi etnici presenti nel proprio territorio con tradizioni culturali diverse e, in alcuni casi, con lingua propria (si pensi a Catalogna e Paesi Baschi).

Modello  federale e regionale a confronto

Regionalismo e federalismo presentano elementi comuni. Accolgono un modello di policentrismo legislativo e, pertanto, si contrappongono ad ordinamenti di tipo unitario e centralizzato (caratterizzati dal monopolio statale della funzione legislativa). Sono caratterizzati dall’esistenza di livelli territoriali di governo intermedi (siano essi gli Stati membri o le Regioni) tra Stato centrale ed Enti minori, quali Comuni e Province. Tali livelli dispongono di proprie competenze, tra cui la potestà legislativa, garantite dalla Costituzione.
Le differenze tra l’ordinamento regionalistico e quello federale sembrano riconducibili, generalmente, al loro processo di formazione. La dinamica formativa tipica dello Stato federale, storicamente, è stata di tipo aggregativo. Si pensi al primo Stato costituzionale federale, gli Stati Uniti, nati, con la Costituzione del 1787, dall’aggregazione di una pluralità di Stati sovrani preesistenti, che avevano proclamato la loro indipendenza dall’Inghilterra nel 1776. Prima di arrivare allo Stato federale, le 13 ex colonie americane avevano sperimentato uno stadio intermedio, la Confederazione (tra il 1777 e il 1781). Quest’ultima si presentava come un’unione internazionale, un’associazione di Stati i cui “cittadini” non erano le persone fisiche ma gli Stati stessi. Lo Stato federale subentrato, invece, disponeva di tutte le strutture statali tipiche: Governo, Parlamento, organizzazione giurisdizionale, esercito. E si relazionava direttamente con i propri cittadini, al contempo cittadini anche degli Stati membri. Per la prima volta nella storia, gli Stati membri avevano delegato parte della propria sovranità allo Stato federale (o, secondo certa dottrina, l’avevano condivisa con esso).
Esula dal tipico modello aggregativo il caso del Belgio. Il piccolo Stato mitteleuropeo, per dare una risposta istituzionale ai profondi cleaveges linguistico-culturali che lo attraversano (le componenti fiamminga, vallona e germanofona) è passato negli anni ’70 da un modello unitario ad uno regionalistico. Tale soluzione si è rivelata una tappa intermedia di decentramento per l’adozione, nel 1993, di una Costituzione federale. Il percorso del Belgio, per ora, costituisce un’eccezione significativa all’itinerario storico tradizionale. Con questo modello dovrebbe confrontarsi il legislatore costituzionale italiano interessato a dare un’impronta federalistica al nostro ordinamento. Riteniamo, tuttavia, sia possibile avviare un processo di decentramento dello Stato, di sua disaggregazione, solo con la spinta di una reale diversità identitaria delle comunità che lo compongono. Tale spinta è stata sicuramente determinante nel caso belga. Nel caso italiano, è ancora da dimostrare che ci sia. Ai movimenti autonomistici (con un peso politico ancora relativamente marginale, nonostante il clamore dato alle iniziative della Lega Nord) si contrappongono forze politiche (o classi dirigenti) che, al di là della dichiarazioni di circostanza, appaiono schierate nettamente per un modello centralistico. Una resistenza, quest’ultima, se vogliamo, fisiologica, una legge naturale di inerzia in uno Stato tradizionalmente centralizzato. Ma non per questo di facile rimozione, al contrario. È forse proprio questo dover andare contro corrente che rende il modello disaggregativo di difficile attuazione storica. L’autoridimensionamento dello Stato centrale, oltre ad esigere uno sforzo giuridico e culturale (per il quale si può essere anche storicamente impreparati), che consenta di predisporre un impianto costituzionale funzionale, in grado di contemperare rappresentanza e governabilità, richiede anche la rinuncia a funzioni  cruciali, l’arretramento su un terreno di interessi costituiti. Un processo tutt’altro che agevole. Si pensi alle resistenze, enormi, che si incontrano solo per far rientrare nei margini dell’efficienza dimensionale le amministrazioni pubbliche, oggi pachidermiche un po’ ovunque, ma particolarmente nel nostro Paese. Il processo è reso ancora più arduo dalla compresenza di altri fattori di natura endogena ed esogena che spingono in direzione opposta, verso l’accentramento da parte  statale. Basti ricordare le esigenze di governo pubblico dell’economia, dello Stato sociale (che impone la garanzia di eguali diritti di cittadinanza nell’intero territorio nazionale) e dei processi di integrazione sopranazionale.
Più semplice arrivare allo Stato federale per aggregazione. Qui gli interessi possono agire non da freno ma piuttosto da forza propulsiva. Gli Stati membri, in nome dei vantaggi più grandi derivanti dall’unione, sono indotti a rinunciare a porzioni della propria autonomia e sovranità. Possono, tuttavia, più facilmente riservarsi funzioni o parti significative di esse, tipiche di uno Stato, quali la potestà legislativa, esecutiva e giudiziaria. Solitamente, invece, le Regioni  raccolgono ciò che lo Stato decide di attribuire loro, e generalmente in questa attribuzione la funzione giurisdizionale è esclusa. Gli Stati membri conservano (o si dotano) di una Costituzione, le Regioni hanno solo Statuti di autonomia. La differenza non è solo nominalistica ma di contenuto. La materia dei diritti fondamentali degli Stati membri, infatti, assente negli Statuti, fa da modello per la Costituzione federale. In caso di conflitto, la prevalenza va allo Stato federale, a meno che nell’ordinamento dello Stato membro non sia garantita una maggior tutela al cittadino.
Nello Stato federale come in quello regionale, la ripartizione dei compiti tra centro e periferia si fonda sulla Costituzione. Per modificarla, dunque, occorre una revisione costituzionale. Gli Stati membri possono accedere  al procedimento di revisione, secondo tecniche diverse (con l’assenso di un certo numero di Stati - ad esempio, i tre quarti in Usa - o con il coinvolgimento della Camera federale, rappresentativa degli stessi). Negli Stati regionali, invece, le regioni non possono incidere, in modo significativo, sulla revisione costituzionale.
La ripartizione delle competenze, poi, nel modello federale, ha un profilo costituzionale ben preciso. Si delinea con l’enumerazione delle competenze spettanti allo Stato federale, le restanti non menzionate rientrano nella sfera degli Stati membri (è la cosiddetta clausola residuale a favore dello Stato membro). Nel modello regionale puro, la logica è opposta (clausola enumerativa a favore dello Stato centrale).
Altra peculiarità dello Stato federale è che a ciascuno Stato membro è riconosciuta all’interno della seconda Camera una rappresentanza quasi o del tutto paritaria, a prescindere dal rispettivo peso demografico. I suoi componenti, infatti, o sono eletti dai propri cittadini (come negli Stati Uniti, dove, nel Senato, ci sono due rappresentanti per Stato) o sono eletti dalle Assemblee locali che li rappresentano (come in Austria, dove le Diete eleggono da 3 a 12 rappresentanti, numero correlato ma non direttamente proporzionale alla consistenza demografica) o sono “cooptati” dai Governi locali  (è il caso della Germania, anche qui la rappresentanza varia in margini ristretti tra 3 e 6).

Il regionalismo italiano e le riforme costituzionali del ’99 e del 2001

La Costituzione spagnola del ’31 puntava a sostenere un processo spontaneo di auoidentificazione delle Comunidades. Evitava così un’imposizione dall’alto e conferiva alle stesse una forma maggiore di autonomia. La nostra Costituzione del ’48, diversamente, ha preferito disegnare sulla carta le Regioni, calarle dall’alto in base ai vecchi confini dei compartimenti statistici. Il perché va ricercato nella volontà di tagliare il nodo di Gordio delle diatribe e degli appetiti municipalistici che rischiavano di corrodere lo spirito costruttivo e unitario dei costituenti. A 5 Regioni (Sicilia, Sardegna, Val D’Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia) ha riconosciuto, con legge costituzionale, una più ampia forma di autodeterminazione, gli Statuti ad autonomia “speciale”. In linea di massima, erano i territori in cui più forti apparivano le spinte autonomistiche o in cui urgeva raffreddare pericolose tensioni secessionistiche. E fino alla “prima regionalizzazione”, nel ’72, furono queste le sole Regioni ad entrare in funzione.

La soluzione regionalistica, infatti, inizialmente era stata voluta dalle forze cattoliche presenti in Costituente e avversata  da comunisti e socialisti. In seguito, si è verificato un curioso scambio delle parti, determinato dalla bipolarizzazione creata dalla Guerra Fredda nello scenario internazionale e dalla conseguente “conventio ad excludendum” gravata, anche nella democrazia italiana, sulle forze politiche vicine al blocco sovietico: se il Pci aveva rivisto la propria posizione sul regionalismo, divenuto una via d’uscita dalla propria emarginazione politica a livello nazionale, la Dc aveva scelto precauzionalmente di congelare l’attuazione del dettato costituzionale in tema di Regioni fino agli anni ’70, quando la “distensione” internazionale – che presto, tuttavia, si sarebbe rivelata di corto respiro, fiaccata dal rapimento di Moro e dalla cosiddetta “seconda Guerra fredda”- aveva permesso un temporaneo riavvicinamento al Pci, nel frattempo rafforzatosi elettoralmente e più critico verso Mosca.
I primi decreti di trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni ordinarie sono arrivati, dicevamo, nel ’72 e nel ’77 (Dpr 616). Negli anni ’80 e ’90, poi, sono state istituite diverse Commissioni ad hoc (Bozzi, De Mita, Iotti, D’Alema) nel tentativo di raccogliere un consenso bipartisan attorno alle riforme istituzionali, tra cui anche quella sulla rimodulazione del rapporto tra Stato centrale ed Enti locali, secondo un’impronta più federalistica (la cui urgenza nell’agenda politica è stata accresciuta dall’emersione di una nuova forza politica, la Lega, che del federalismo – o, a corrente alternata, della secessione - ha fatto la propria bandiera). Questi tentativi, però, si sono conclusi tutti con un nulla di fatto. Al punto che ha cominciato a farsi strada, nelle due coalizioni, di centrosinistra prima e centrodestra dopo, la pratica deprecabile di adottare riforme istituzionali monocolore, fondate sul consenso di una sola parte politica, facilitata dal sistema elettorale di tipo quasi maggioritario introdotto nel ’93 (che aveva automaticamente alleviato la “procedura aggravata” dell’art.138 della Costituzione). Ulteriori e importanti conferimenti di potestà agli Enti minori, sono state le leggi e i decreti “Bassanini” (soprattutto il d.lgs.112/1998). Questi ultimi, si è sostenuto in dottrina, hanno introdotto una normativa consolidata, poi, a livello costituzionale, dalle successive leggi costituzionali n.1 del ’99 e n.3 del 2001. Con queste, si è riformato in modo significativo il Titolo V della II Parte della Costituzione, relativo a Regioni, Province e Comuni.
La prima riforma costituzionale ha avuto ad oggetto soprattutto gli organi della Regione e la sua forma di governo. Ha previsto, in particolare, un modello tipo (da cui le Regioni, comunque, possono allontanarsi, purché entro i paletti fissati dalla Costituzione), che ha conferito - art.122 comma 4 - un maggior peso politico al presidente della Giunta regionale (e di riflesso allo stesso Ente nei confronti dello Stato centrale), basato sulla sua investitura diretta. Il presidente nomina e revoca gli assessori. Se sfiduciato, con una mozione motivata e presentata da almeno un quinto del Consiglio - art. 126 comma 2 -, è rimosso insieme alla Giunta. Il che determina l’automatico scioglimento del Consiglio regionale, a ulteriore tutela della stabilità delle Giunta, non soggetta al ricatto del Consiglio.
In più, l’art. 123 ha eliminato il vaglio dello statuto ordinario da parte del Parlamento e introdotto il modello di revisione statutaria che ricalca quello di revisione costituzionale (“Lo statuto è approvato e modificato dal Consiglio regionale con legge approvata a maggioranza assoluta dei suoi componenti, con due deliberazioni successive adottate ad intervallo non minore di due mesi. Per tale legge non è richiesta l'apposizione del visto da parte del Commissario del Governo. Il Governo della Repubblica può promuovere la questione di legittimità costituzionale sugli statuti regionali dinanzi alla Corte costituzionale entro trenta giorni dalla loro pubblicazione. Lo statuto è sottoposto a referendum popolare qualora entro tre mesi dalla sua pubblicazione ne faccia richiesta un cinquantesimo degli elettori della Regione o un quinto dei componenti il Consiglio regionale. Lo statuto sottoposto a referendum non è promulgato se non è approvato dalla maggioranza dei voti validi”).
La l. cost. 3/2001 ha apportato una innovazione di rilievo nel nostro ordinamento. Ha rovesciato l’enumerazione delle competenze legislative, riconoscendo alle Regioni a Statuto ordinario la competenza legislativa generale (art. 117, comma 4: “Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.”) ed allo Stato una potestà legislativa “limitata” (art. 117, commi 2 e 3, che fanno riferimento, rispettivamente, a competenze statali di tipo esclusivo e a materie in cui la potestà legislativa regionale è vincolata dai principi fondamentali determinati dalla legislazione statale). Questa novità, la clausola  residuale a favore delle Regioni, come abbiamo su ricordato, è stata mutuata direttamente dal modello federale. A moderare la “svolta”, tuttavia, è stato l’altro articolo novellato dalla riforma costituzionale, l’art. 118 (“Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”), o quantomeno la sua più recente interpretazione giurisprudenziale (sentenza  della Corte Costituzionale n.303 del 2003). Per quest’ultima, infatti, il principio di sussidiarietà previsto dal legislatore costituzionale per l’esercizio della funzione amministrativa è applicabile anche alle altre funzioni, legislativa e regolamentare. Rappresenterebbe, infatti, un “meccanismo dinamico che  finisce col rendere meno rigida la stessa distribuzione delle competenze legislative”. La disciplina dell’art. 117, di conseguenza, sarebbe derogabile dal combinato disposto degli artt. 118 e 97 (in quest’ultimo essendo costituzionalizzato l’assoggettamento dell’attività amministrativa alla legge statale). Ma una simile deroga, esercitata con criteri difficilmente giustiziabili, quali “ragionevolezza”, “proporzione” e “concordia”, finisce quasi per decostituzionalizzare gli elenchi dell’art. 117 e per confondere ulteriormente le carte.
A ciò si aggiunga la tecnica articolata e un po’ confusa introdotta dalla 3/2001, che ha reso la ripartizione delle competenze tutt’altro che chiara. Non si è limitata a elencare materie-oggetto esclusive (beni materiali, immateriali, istituti, status ecc.). In alcuni casi, su un’unica materia-oggetto ha stabilito competenze diverse, distinguendo, ad esempio, tra materia-oggetto-tutela e materia-oggetto-valorizzazione; in altri casi, gli elenchi hanno incluso anche materie-scopo (secondo e terzo comma art.117), riguardanti, cioè, le finalità perseguite più che fattispecie concrete, e materie-disciplina (quali le “norme processuali” o l’ “ordinamento civile e penale”). Le materie scopo e disciplina, secondo la giurisprudenza, hanno un carattere “trasversale” rispetto alla ripartizione, ossia, in esse può intervenire la legge statale anche quando attengono a materie-oggetto in tutto o in parte assegnate alle Regioni. Con la differenza che, nelle materie scopo, prevale sicuramente la prerogativa statale (purché l’ “invasione” sia inevitabile ed esercitata con la dovuta proporzionalità), mentre, nelle materie-disciplina, avrebbe, secondo certa dottrina, la precedenza la normativa regionale (se vigente o se subentrata in un secondo momento).

La riforma del 2005 bocciata dal referendum

In occasione del referendum confermativo dello scorso 27 giugno, il 61,3% dei votanti (53,6% il quorum) ha detto “no” alla riforma costituzionale approvata dalla sola maggioranza di centrodestra nella scorsa legislatura. La legge costituzionale lasciava intoccata la prima parte della Carta del ’48, relativa ai diritti fondamentali. Interveniva in modo pesante, invece, sulla seconda parte, non solo sulla forma di Stato (cercando di introdurre la declamata devolution) ma anche su quella di governo. Ci limiteremo, naturalmente, ad esaminare solo i punti del progetto più strettamente legati al nostro tema, il federalismo e le autonomie locali.
Il bicameralismo perfetto, è stato concepito dai costituenti come un’ulteriore forma di garanzia e controllo sul Governo, in un contesto storico in cui ancora vivo era il ricordo dell’esperienza autoritaria fascista. Oggi, la “Camera Alta”, così strutturata, è ritenuta, quasi unanimemente, un doppione superfluo, un freno inutile per la governabilità del Paese. Di qui l’ipotesi della sua cancellazione, ovvero, in alternativa al monocameralismo, della sua trasformazione in una “Camera federale”, cioè realmente rappresentativa, nei modi su indicati, degli Enti locali intermedi (le Regioni). Un simile passo costituirebbe la prima, essenziale tappa per realizzare un vero federalismo. Nella riforma del 2005, tuttavia, probabilmente per il condizionamento di certe forze politiche che avevano collaborato al progetto, si preferiva non ridisegnare radicalmente il ruolo del Senato. Ci si fermava a mezza strada, confezionando un ibrido, un modello inedito nel panorama degli Stati “composti” esistenti e, soprattutto, non corrispondente alle esigenze del pur invocato “federalismo”.
Il nuovo Senato, infatti, pur essendo contrassegnato da caratteristiche proprie delle seconde Camere federali, e cioè l’estraneità al circuito fiduciario e la sottrazione allo scioglimento anticipato, non presentava un idoneo collegamento con le Regioni e, così come strutturato (i senatori sono eletti con suffragio diretto e distribuiti proporzionalmente alla popolazione tra le varie Regioni), non era utile ad assicurare la saldatura con la dimensione politica locale. Non erano sufficienti, per questo scopo, neanche la prevista elezione “su base regionale” (da sempre presente nell’art.57 Cost.), né i requisiti per l’elettorato passivo (il “requisito minimo” per l’elezione, quello di residenza del candidato nella  Regione alla data di indizione delle elezioni, era talmente “morbido”, di facile acquisizione, da non costituire in alcun modo un filtro valido per dare all’assemblea una reale composizione regionale), né i generici e poco vincolanti raccordi di tipo informativo o consultivo tra senatori e organi regionali. Il progetto costituzionale, oltretutto, rinviava la definizione dettagliata di tali strumenti alla legge dello Stato, dove presumibilmente sarebbero finiti schiacciati dalla prevalente esigenza di efficienza decisionale del sistema e dal peso della politica nazionale. Non sembrava risolutivo, infine, lo stesso espediente della “contestualità affievolita” delle elezioni senatoriali con quelle dei Consigli regionali: rischiava, piuttosto, di produrre l’effetto inverso, di trascinare le scelte elettorali locali nella logica di quelle nazionali.
Lo stesso testo della riforma riconosceva implicitamente la insufficiente rappresentatività territoriale del Senato, laddove, accanto alla composizione ordinaria della seconda Camera, ne prevedeva una “integrata” per l’esercizio delle sole funzioni elettorali: in tali casi (elezioni di giudici costituzionali e membri del Consiglio Superiore della Magistratura) si sarebbero aggiunti ai senatori anche i Presidenti delle Giunte delle Regioni e, per la partecipazione all’Assemblea che elegge il Presidente della Repubblica, anche delegati designati dalle stesse Regioni.
Più verosimilmente, un Senato così confezionato (nella composizione ordinaria), con membri eletti a suffragio diretto e non soggetti a vincolo di mandato, rappresentando “la Nazione e la Repubblica”, avrebbe funzionato da vera e propria camera politica nazionale. E la sua sottrazione al rapporto fiduciario e allo scioglimento anticipato, dunque, non avrebbe avuto alcuna giustificazione. La negazione di un suo carattere rappresentativo delle autonomie locali si sarebbe tradotto, tra l’altro, anche nello svuotamento della partecipazione di queste ultime (per il tramite del Senato) nel procedimento di revisione costituzionale (partecipazione, invece, come abbiamo visto, essenziale per uno Stato federale). E se anche fosse stato garantito alle Regioni l’accesso al procedimento di revisione, la partecipazione di ciascuna di esse sarebbe stata comunque proporzionata alla propria consistenza demografica e non, invece, come accade normalmente negli Stati federali, paritaria rispetto alle altre o comunque regolata da un criterio che attenui le differenze demografiche.
La riserva alla legge dello Stato (at.57, comma 3) di dettare il sistema elettorale, con il compito generico, privo di indicazione di principi e modalità, di garantire la rappresentanza territoriale da parte dei senatori, precludeva al Senato, anche in prospettiva, la possibilità di arrivare ad una legge elettorale più consona a sostanziare il proprio carattere federale.
Il progetto prevedeva un sistema di leggi monocamerali, a volontà prevalente della Camera dei deputati, monocamerali a volontà prevalente del Senato e bicamerali a partecipazione paritaria. I commi 2 e 3 dell’art.117, affidavano alla Camera le leggi in tema di competenza statale esclusiva (escluse alcune voci) e al Senato quelle per la posizione dei principi fondamentali per la legislazione concorrente. Le leggi bicamerali, invece, coprivano un’area amplissima, interessando non solo svariati aspetti dell’ordinamento regionale, tra cui tutela della concorrenza, potere statale sostitutivo ecc., ma anche altri settori di rilievo politico generale, quale quello delle leggi militari di guerra (art.27, comma 4), dei diritti fondamentali da 13 a 21 (ma non i diritti sociali, quali, ad esempio, quelli degli artt.32 e 34, demandati a leggi monocamerali della Camera dei deputati), delle norme per la costituzione e il funzionamento della Corte Costituzionale ex art.137, comma 2.
Questa distribuzione di competenze riservava al Senato una partecipazione rilevante al potere legislativo, anche in ambiti di spiccato interesse unitario, come è tipico ed essenziale per le camere federali. Ad essere contraddittoria era, invece, la previsione di leggi monocamerali del Senato (per quanto su iniziativa del Governo potessero essere sempre trasformate in bicamerali). In questi casi, la Camera era estromessa dalla decisione finale e proprio in relazione a contenuti (i principi fondamentali della competenza concorrente) che sono tipica espressione di un’istanza unitaria. Un privilegio, questo, sconosciuto ad altri modelli federali (compreso quello tedesco, in cui il pur forte Bundesrat non ha mai volontà prevalente nell’approvazione delle leggi).
A ciò, si aggiunga il criterio discutibile con cui si distinguevano le leggi “a prevalenza della Camera” e quelle “a prevalenza del Senato”. Rifacendosi in modo quasi pedissequo agli elenchi di competenze (da più parti definiti difettosi) dell’art.117 novellato dalla l.cost.3/2001 (la cui applicazione ha già generato numerosi attriti tra Stato e Regioni), su questa base aveva predisposto anche la ripartizione delle materie tra le due Camere. Una simile scelta, riproducendo i dubbi e le incertezze interpretative emersi sinora, si prestava a moltiplicare i conflitti istituzionali, estendendoli anche ai rapporti tra i due rami del Parlamento. Conflitti che, poi, sarebbero stati difficilmente risolvibili con il dispositivo macchinoso previsto (“I presidenti di Senato  e Camera, d’intesa tra loro, decidono eventuali questioni di competenza tra le due Camere, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti, in ordine all’esercizio della funzione legislativa. I presidenti possono deferire la decisione ad un comitato paritetico, composto da quattro deputati e quattro senatori, designati dai rispettivi presidenti. La decisione dei presidenti o del comitato non è sindacabile in alcuna sede - neanche dalla Corte costituzionale, sic! Ndr -. I presidenti  delle Camere, d’intesa tra loro, su proposta del comitato, stabiliscono sulla base di norme previste dai rispettivi regolamenti i criteri generali secondo i quali un disegno di legge non può contenere disposizioni relative a materie per cui si dovrebbero applicare procedimenti diversi”).
Nella vigente Costituzione è già assegnata alle Regioni una potestà legislativa esclusiva, quella “residuale”. Ma il disegno di riforma introduceva un’ulteriore categoria, la potestà legislativa regionale esclusiva (nelle materie di sanità, scuola, polizia amministrativa e locale). La sostanza giuridica non cambiava. Si finiva solo per rafforzare il concetto. Sulla “nuova” potestà esclusiva regionale restavano, infatti, i limiti previsti per la “residuale”, ossia la sua permeabilità alle “invasioni legittime”, ragionevoli e proporzionate, della legge statale nelle materie-scopo e disciplina, al principio di sussidiarietà (esplicitamente esteso, in accoglimento della più recente giurisprudenza della Corte costituzionale, dalla funzione amministrativa a quella normativa) e alla cosiddetta clausola di salvaguardia (secondo cui, la legge regionale può essere annullata dal Parlamento in seduta comune su iniziativa del Governo qualora pregiudichi l’interesse nazionale).
Vista, probabilmente, la crucialità, soprattutto negli ultimi anni, a partire dalla riforma del Titolo V, del ruolo della Corte Costituzionale nel dirimere le controversie in tema di competenze tra Stato e Regioni, il progetto di riforma pensava bene di regionalizzare e politicizzare il supremo organo di garanzia giurisdizionale, cambiandone gli equilibri interni, nonostante la sua area di intervento fosse molto più ampia del semplice ruolo di arbitro tra Stato e Regioni e presupponga, per questo, una composizione imparziale e politicamente neutrale. Il Senato, addirittura, secondo le prime bozze di riforma, doveva eleggere ben 7 su 15 giudici costituzionali. In seguito si decideva di demandargli l’elezione di “soli” 4 giudici, gli altri 3 alla Camera, per un totale di 7 su 15 di elezione parlamentare (contro gli attuali 5 su 15). Una simile scelta, di riservare l’elezione dei giudici costituzionali al solo Senato “federale” integrato, escludendo la Camera dei Deputati, avrebbe rappresentato un unicum nel panorama dei sistemi federali europei (in Germania, per esempio, l’elezione dei giudici costituzionali è equamente ripartita tra Bundestag e Bundesrat).

 

 

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